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00083 | Amministratore | Amministratore | Sua moglie era entrata in coma nel tardo pomeriggio di un giovedì di marzo, mentre lui era fuori e i figli stavano tornando da scuola. I bambini – una ragazzina di tredici anni e un maschietto di sette – avevano trovato la mamma distesa sul tappeto del salotto, a pancia in giù, con la bocca aperta e gli occhi chiusi. Prima di cedere al pianto, avevano chiamato il 118. Così avevano imparato, in classe, durante l’ora di educazione civica. Più tardi, mentre due medici tentavano di rianimare il corpo seminudo della donna, la ragazzina aveva provato a chiamare suo padre, cioè lui, ma il telefono era spento o irraggiungibile. Uno dei medici, una piccola donna sui quaranta, dotata della risolutezza che solo i corpi minuti hanno, si era accorta di quell’assenza e aveva chiesto ai piccoli chi si sarebbe occupato di loro. Scartate la nonna materna – una vedova che viveva in Austria – e la nonna paterna – altrettanto vedova che, lo dicevano loro, aveva problemi di cuore e una certa predisposizione all’angoscia – aveva optato per gli zii. La sorella di lui e il marito.
A quest’ultimo venne affidato l’incarico di aspettarlo e trovare le parole adatte a spiegare perché la moglie non fosse a casa; la zia, invece, appena arrivata, si preoccupò di portare via i bambini, senza nemmeno capire ciò che davvero era successo.
Tornò a casa intorno alle dieci di sera. Il quartiere era composto, in gran parte, di villette a schiera, con giardini misurati in centimetri quadri, box auto come casette tirolesi, piscine di gomma che d’estate brillavano al sole, altalene appese ai rami più grossi degli alberi, telai di mattoni grigi per il barbecue, taverne e mansarde quasi sempre abusive. Il quartiere era ciò che restava della borghesia di un tempo, l’ultimo conato.
Tutto intorno, l’assedio di una povertà che non aveva più mezzi per nascondersi. Anche il centro commerciale innalzato da una società tedesca a due chilometri da lì non era che un miraggio: ogni giorno inghiottiva e rigurgitava vecchi, marocchini, badanti. Quando tornava a casa, li vedeva al capolinea dell’autobus, coi sacchetti mezzi vuoti, le donne rassegnate come vacche indù e gli uomini con sguardi affamati, pronti ad azzannare. I ricchi erano spariti, tutti insieme. Da anni non ne vedeva passare uno. Rimanevano le loro case enormi e sfitte, mausolei per stupori futuri.
La luce del giardino era accesa. Davanti al portoncino esterno il gatto del vicino alzò la coda e, sotto la pioggia, offrì la schiena alle sue carezze. Lo lisciava ogni sera, pensando al fatto che da qualche tempo i gatti del quartiere sparivano per motivi che nessuno sapeva. La lampada all’ingresso illuminava la porta blindata e i due vasi di petunie ai lati dello zerbino. In casa non c’era nessuno: solo quel cognato con la faccia triste, sorpreso in cucina a scaldarsi un po’ di latte.
«Che fine hanno fatto gli altri?»
Poco distante c’era una gelateria dove, ogni tanto, la figlia andava a prendere una vaschetta formato famiglia; ma erano mesi che non smetteva di piovere, e la strada davanti casa s’era trasformata in un lago artificiale. La macchina di sua moglie l’aveva intravista nel garage, tra scatole di attrezzi per il bricolage e casse di giocattoli che nessuno usava più. In effetti, erano anni che nessuno aveva il coraggio di uscire a piedi la sera.
Il cognato si avvicinò e lo abbracciò, senza emettere un suono. Rimasero così per qualche secondo, sotto la luce al neon della cucina, mentre il latte aveva iniziato a gonfiarsi, minacciando di uscire dal pentolino. Cosa aveva creduto in quel momento: che fossero morti i figli? E perché il cognato aveva pensato di iniziare dalle condoglianze? Quell’uomo era sempre stato un mistero, per lui: ogni volta che le famiglie si riunivano, non smetteva di guardarlo, chiedendosi per quale motivo sua sorella l’avesse sposato. Era gracile, e goffo, e con un naso grande. Un naso che non sapeva come gestire. Si chiamava Gregorio e aveva poca dimestichezza col mondo. Il latte era uscito, spegnendo la fiamma, e lui era ancora là , aggrappato al suo corpo, convinto di poter trasmettere informazioni per via telepatica. Se lo staccò di dosso un braccio alla volta e poi lo guardò in faccia, negli occhi, oltre quel naso troppo grosso per essere preso sul serio. Scandendo bene le parole, gli chiese: «Gregorio, cos’è successo?»
A quel punto, il solo problema fu dare la definizione esatta di coma. |
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