Sonny è sincero perché sta morendo, forse è già morto da un pezzo. Ma non rinuncia a indebitarsi di vita. Non rinuncia a sussurrare la tristezza immane nell’essere l’ultimo dimenticato fuori, che non sta mai nel posto giusto al momento giusto, scartato per la sua bravura. Dimenticato volontariamente,
e dimentico di un mondo corretto. Anche dall’amore. Riuscire a raccontare quel respiro vuoto del ricordo di quando tutto era possibile, di quando esisteva l’emozione di una possibilità e la possibilità di un’emozione. è una storia inutile provare a dire come ci si sente male quando la porta si è chiusa e non è venuto a bussare più una donna, un amico, un impresario.
Chi ha deciso, Sonny, che ad un tratto tutto doveva finire? Il tratto di Elena Rapa rimane denso, pesante, fortemente gravitazionale da andare nel punto in cui barocco e horror vacui lasciano lo spazio bianco a un nero leggero, uniforme, sereno nella sua densità. Un’evoluzione sorprendente, qualcuno la definisce maturità, probabilmente assenza di ansie che cercano stupore, ma lucida analisi del vivente.
La narrazione di Luca Scornaienchi diventa pulita nell’accompagnare il candido nero di Rapa.