Anche i giuristi e i filosofi del diritto hanno da lungo tempo dimestichezza con quelle “verità artificiali†che essi sono soliti chiamare «dogmi». Il fenomeno della volontà interpretativa che forzi a considerare fatto ciò che di per sé non sarebbe empiricamente verificabile – tuttavia – si rivela presto ben più esteso e radicale di quanto possa manifestarsi nel solo à mbito giuridico. Persino l'evidenza apparentemente più indiscutibile del Pianeta – vale a dire quella del divenire delle cose, del loro venire dal e del loro andare nel nulla – potrebbe infatti rivelarsi non un'innegabile verità , bensì una semplice fede. E “folliaâ€, frutto d'un nichilismo inconsapevole, diverrebbe allora anche la credenza – sulla quale, tra l'altro, poggia pure l'intero edificio della scienza giuridica – di poter in qualche modo cambiare il corso degli eventi, plasmandolo secondo una propria volontà demiurgica.
Gli “abitatori del tempo†vivono nella convinzione che tutto, al mondo, sia legna che brucia, la quale più o meno lentamente diventa cenere. Ed essi credono inoltre che la prova irrefutabile di tale caducità – genus di cui la mortalità dell'uomo è semplice species – possa essere (e in concreto sia) offerta, banalmente, dall'esperienza. Ma la stessa “morteâ€, scavando al sottosuolo del problema, è fatto o interpretazione? Questo capitolo del dialogo fra Emanuele Severino e Biagio de Giovanni – che le Piccole Conferenze si pregiano qui d'ospitare per il suo universale valore teorico – racchiude così in un'unica domanda, solo in apparenza provocatoria, l'estrema sfida lanciata a tutte le categorie filosofiche del Pensiero Occidentale.