Una scrittura lieve, flautata direi, per usare un aggettivo caro all'ultimo Caproni, è uno degli elementi distintivi della poesia di Irene Paganucci. Compagno di avventura editoriale il prefatore, Andrea Donaera, anch'egli poeta, scelto con molta probabilità per affinità elettive, immediata sintonia con la frequenza esistenziale e poetica dell'autrice. Fa bene Donaera a convocare Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque per evidenziare la semplicità complessa che è il risultato di questi testi, dall'intensa colloquialità e introspezione, i quali riescono a svolgere il tema offerto dai versi della Cavalli posti in esergo: «Ma per favore con leggerezza / raccontami ogni cosa / anche la tua tristezza». “Di questo legno storto che sono ioâ€, (Marco Saya Edizioni), è un libro felice, dal titolo capricciosamente vitale (aspetto questo, che si chiarisce soprattutto dopo la lettura dei versi), con quel procedere sghembo sul mondo, un esordio notevole di un'autrice molto accorta riguardo la tradizione poetica italiana e straniera, con quella capacità di disfarsene per la propria scrittura. Breve e compiuto, dall'ingenuità sorprendente ma controllata (una sorta di vera e propria forma mentis che la accomuna a Donaera), riesce ad assecondare le onde volubili dell'umore, in descrizioni quotidiane che toccano il cinematografico con il distanziamento apparente dell'ironia, usata come medicina per alleggerire appunto il carico emotivo dello sturm und drang sentimentale. C'è una sorta di cinismo-maschera, lo schermare i sentimenti attraverso accostamenti letterari, per troppo sentire. Ma c'è anche un dichiararsi frontale, forse per bisogno di percepirsi nello specchio del proprio enunciato: «Di questo legno storto che sono io / non ridere, amore, è questo soffiare / del vento è tutta la furia del tempo» (p.11); «Oggi ti amo come in un film di Allen: / spettinato occhialuto / oltremodo disperato, disposto a / tutto il mio amarti per puntiglio, / per smacco alla morte. / Oggi ti stramo.» (p. 18). L'originale commistione tra sogno e tenerezza, malinconia e quotidianità nella singolarità esemplare che riceve in dono il libro anche dall'aura della giovinezza anagrafica di chi l'ha scritto, regala a chi lo legge un'esperienza memorabile, ne sono emblematici questi due testi: «Mostrarti allegria è il gioco quotidiano / dello spazzolino dopo ogni pasto, / della doccia al mattino: / lavare per sporcare per ridarmi / un lustro che durerà un paio d'ore» (p. 30); «Io mi sento infelice, delle volte, / e mi viene in mente quando / ho chiesto Mamma, ma cos'è / la depressione? àˆ quando vedi tutto / nero – mi disse. / E io che poi per anni ho creduto che era / una malattia degli occhi» (p. 29). (Luigi Carotenuto)