Dalla semantica del termine ‘cultura’ alla pluralità di significati – sociali, economici, storici, simbolici – del cibo: esiste uno spazio per una regolazione giuridica del suo indiscutibile valore culturale? Il cibo, le tradizioni alimentari, la produzione enogastronomica d’eccellenza, hanno un posto nel mosaico ordinamentale nazionale? E, prima ancora, la nozione di ‘cultura’ richiamata in Costituzione può prescindere dalla consistenza materiale del bene? Dinanzi a un quadro costituzionale “aperto”, l’orientamento del legislatore nazionale in materia si è rivelato molto più incerto e oscillante, specialmente se paragonato agli sviluppi normativi sovranazionali e substatali o agli orientamenti giurisprudenziali più avanzati.
All’interno di questa cornice sono inserite le eccellenze enogastronomiche italiane, quali beni culturalmente rilevanti sotto molteplici aspetti. Ma che s’intende per ‘eccellenza enogastronomica’? Essa, a ben vedere, può essere scomposta in un triplice oggetto, ossia “prodotto” enogastronomico; “territorio” da cui si ricava; e “arte” di realizzarlo. Il che trova riscontro, per la prima volta, nella più recente attività del legislatore nazionale, con riferimento al settore vitivinicolo. Il collante di questo triplice oggetto è dato, appunto, dall’“eccellenza”, attestata dal marchio di qualità, nazionale ed europeo. Nell’analizzare i requisiti e le procedure per ottenere una DOP o IGP – e quindi una dichiarazione di qualità – vengono poi evidenziati i parallelismi con i procedimenti di dichiarazione e verifica dell’interesse culturale, scolpiti dagli artt. 12 e ss. del Codice dei beni culturali.
Intorno all’universo enogastronomico va, insomma, emergendo rapidamente un sistema multicentrico di garanzie che induce a superare quella nozione di patrimonio culturale inflessibilmente attestata sul limes della materialità, come vuole la vulgata corrente costruita intorno al Codice dei beni culturali del 2004.