Intessuto di vani richiami a riferimenti inattingibili, il libro mostra che non c’è più nessun racconto, né spazio per il tragico, né spazio per il comico, descrivendoci così tutta la crisi della letteratura (e del mondo), ma additandoci anche una via per la fuoriuscita da questa crisi: ascoltare l’insensatezza del vaniloquio oggidiano in tutte le sue imprevedibili articolazioni.
La semiosfera è oggi un immenso crogiolo senza padrone di racconti, le cui voci si confondono fino a perdere ogni connotato identitario. Il medium non è più il messaggio, ma il segnacolo di uno spossessamento di cui tutti facciamo quotidiana esperienza: siamo, da ogni dove, parlati, da parole che non sentiamo. Di quella che un tempo si chiamava identità resta una traccia pronta a svanire su un orizzonte.
È da questo labile orizzonte di segni, da questo semenzaio che La più recente fine di un racconto di Tripodi trae il materiale verbale di cui si compone: coacervo di fonti la cui trama compone la stoffa di un incubo chiamato postmodernità.