In un momento storico molto particolare la riscoperta di Simón Radowitzky
Simón Radowitzky è stato tante cose: anarchico, russo, ebreo, argentino naturalizzato, rivoluzionario, omicida del capo della polizia
di Buenos Aires nel 1909, prigioniero, fuggiasco, militante in guerra, esule, fabbricante di giocattoli. Nessuna di queste “etichette”,
utilizzate per descrivere telegraficamente Simón, può anche solo lontanamente rendere appieno il suo ritratto, il dolore che in ogni
azione si è trascinato dietro. O forse sì. In queste pagine dense e limpide, struggenti, l’autore narra la vita di un uomo che trascorse
un terzo della sua esistenza, vent’anni, nel bagno penale di Ushuaia, all’estremo confine del mondo, nella Terra del Fuoco. Quando
morì, nel 1956, di lui si era detto tutto e il contrario di tutto. Poi, l’oblio, ne coprì le gesta. Oggi, a distanza di tanti anni, soprattutto
in un momento storico come questo, quando le statue vengono abbattute in segno di una presunta ribellione all’ordine costituito e alla
supremazia bianca, parlare di Radowitzky è come tornare al vero senso della parola anarchico.